‘Nella contrada dei Servi Rocca è popolare a tutti: abita per fitto un piccolo appartamento al numero 48, piano secondo e vi si accede per una buia scaletta di pietra. L’appartamento è composto di poche stanzette arredate semplicemente e più che l’idea di abitazione mi fecero quella di un laboratorio. Violini appesi da ogni lato, violini in riparazione…dalla via nessuno strepito sale a turbare il silenzio religioso dell’officina, solo di tratto in tratto il rauco grido di un vecchio pappagallo, spettatore impaziente e impassibile di quell’assiduo lavoro’.

Con questa breve e suggestiva introduzione, il cronista che all’inizio del Novecento si reca nei vicoli che dalla centralissima Piazza Ponticello a Genova scendono verso via dei Servi, ci lascia un’immagine viva e intensa dell’ambiente nel quale lavorava e viveva Enrico Rocca, allora il liutaio più anziano e rispettato nell’ambiente cittadino; la contrada di via dei Servi, densa di negozi e botteghe, conduceva in via Madre di Dio, cuore popolare della Genova di Niccolò Paganini, che dalla metà dell’Ottocento era divenuta il quartiere dei chitarrai, dei costruttori di mandolini e di altra ‘chitarriglia’ a plettro. Sebbene figlio d’arte, terzogenito di quel Giuseppe la cui notorietà a pochi anni dalla morte si andava saldando in tutta Europa, Enrico Rocca ebbe un percorso difficile che lo condusse solo in età adulta alla liuteria; nato a Torino il 21 Aprile 1847 da Giuseppina Quarelli, seconda moglie di Giuseppe, ebbe probabilmente un’infanzia difficile: quando Giuseppe Rocca decise intorno al 1853 di trasferirsi a Genova prendendo casa in Via dei Sellai, a seguito del terzo matrimonio contratto con Eugenia Dodero, lasciò probabilmente Enrico a Torino poiché, da quanto risulta dal censimento, nel 1856 non compare nel nucleo famigliare. Dopo anni trascorsi tra Torino e Genova, Giuseppe Rocca muore in circostanze tragiche nel Gennaio del 1865, il suo cadavere viene rinvenuto in un pozzo presso gli orti della Pila nel borgo di San Francesco d’Albaro, poco distante dal centro cittadino; le cause del decesso furono definite come accidentali e tuttavia Marengo Romano Rinaldi nel suo volume ‘Tre figli delle Langhe’ alluse all’abitudine all’alcol di Giuseppe quale vera causa della sua rovina. Enrico rifiutò sempre questa versione per lui degradante dell’onorabilità del padre e piuttosto ne incolpava la fine ‘all’infame condotta della moglie Eugenia Dodero’ che, secondo lui, lo condusse al suicidio. Rimasto senza il padre, quindi senza maestro e senza possibilità di poterne rilevare l’attività, Enrico (allora diciottenne) abbandona definitivamente la famiglia, prende una camera in affitto e inizia a lavorare come barcaiolo, assolve il servizio militare forse come marinaio, s’impiega quindi come maestro d’ascia nei cantieri del porto di Genova e infine apre un laboratorio di falegnameria in vico Pomogranato: perviene alla liuteria solo verso la fine degli anni settanta dell’Ottocento allorché, non senza fatica, riesce a convertire la sua attività di falegname in quella di costruttore di chitarre e mandolini, strumenti per i quali poteva contare su una buona richiesta del mercato locale.

 

Negli anni successivi Rocca si propone con frequenza alle grandi esposizioni dell’industria e dell’artigianato promosse dal Regno Sabaudo a Milano, Arezzo, Torino, Bologna, Palermo e Genova ottenendo medaglie, distinguendosi per la costruzione di un mandolino napoletano con doghe lavorate e per ‘mandolini diversi sistemi’ così come riportato dal redattore della guida. Immaginare, come spesso fu fatto in passato, un ipotetico apprendistato compiuto sotto la guida del padre risulta difficile in questo quadro generale: Enrico Rocca inizia a costruire violini solo in età matura a partire dai primi anni novanta, forse supportato da Eugenio Praga il quale, sebbene fosse coetaneo, poteva vantare un’esperienza ininterrotta nella liuteria, un’ottima clientela e soprattutto consistenti risorse economiche: dalle evidenze dei particolari della lavorazione di alcuni violini e violoncelli costruiti dal Praga negli anni novanta è possibile intravvedere, sopratutto nell’impostazione della struttura interna e nelle filettature, la presenza della mano di Enrico. Con la morte del Praga avvenuta nel 1901 per Enrico Rocca si aprono maggiori opportunità di lavoro, diviene il liutaio più anziano e rispettato nell’ambiente cittadino, chiamato quale consulente presso il Comune di Genova per la conservazione del “Cannone” di Niccolò Paganini e soprattutto vede aumentare la richiesta di strumenti del quartetto d’archi grazie anche alla ditta londinese Hawkes & Sons che gli consente di esportare i suoi violini all’estero; saranno questi anni di grande attività, durante i quali la sua fama si attesta a livello internazionale e la sua produzione diviene consistente e costante fino alla morte, occorsa nella sua abitazione-laboratorio in Salita della Misericordia nel Giugno del 1915. Lo stile e la carriera di Enrico Rocca possono essere divisi in gruppi cronologici differenti; in un primo periodo compreso tra il 1878 e il 1890 circa, si dedica quasi esclusivamente alla costruzione di strumenti a plettro, soprattutto chitarre e mandolini, spesso finiti con delicate decorazioni ad intarsio che dimostrano una manualità felice e sicura: l’espressione di questa sua ottima attitudine disegnativa trova gli esiti migliori nella cospicua produzione di mandolini lombardi a sei corde, spesso dotati di testa di leone dalle fauci spalancate e occhi minacciosi realizzati con perline in pasta di vetro. Parallelamente a questa fase, a partire dagli anni novanta, Enrico inizia a collaborare con Eugenio Praga per la costruzione di violoncelli e violini: è questo il periodo nel quale inizia a prendere confidenza con la liuteria ad arco, costruisce alcuni contrabbassi, firma i primi violini e fornisce prestazioni a volte imprevedibili per intuizione e sensibilità verso la liuteria classica. A partire dalla fine del secolo, con l’affermarsi definitivamente quale costruttore di violini, viole, violoncelli, lo stile di Enrico Rocca, ormai maturo e sicuro, acquista una fisionomia definitiva, dispiegandosi tra reminiscenze paterne e forme più genovesi: sebbene la sua tecnica costruttiva sia sostanzialmente diversa da quella del padre, Enrico in questi anni cerca di recuperarne alcune suggestioni nell’aspetto generale dello strumento (diviene costante ad esempio l’uso della finitura ad inchiostro nero sugli smussi della testa), riproponendo saltuariamente il modello Stradivari tratto dal “Messia” frequentemente usato dal padre. Diverso invece il discorso riguardante i modelli desunti da Giuseppe Guarneri “del Gesù”, dal momento che non farà mai uso di quello utilizzato da Giuseppe Rocca, l’”Allard” del 1742, preferendo dedicarsi quasi unicamente al “Cannone” di Paganini: di questo strumento Enrico Rocca fornirà un buon numero di modelli, eseguiti sempre con grande personalità, orientati verso una reinterpretazione in chiave moderna, senza interventi di anticatura, che diverranno un modello per i liutai genovesi delle generazioni future. Il violino qui proposto è rappresentativo dello stile maturo di Enrico Rocca ed è forse uno degli ultimissimi da lui costruiti, testimone della felice condizione creativa ed esecutiva dell’autore, allora sessantottenne: datato al 1915, lo strumento è basato su un modello Stradivari spesso utilizzato nell’ultima fase della carriera; costruito con forma interna a tasselli inclinati, mostra un interno realizzato in abete con controfasce di generose dimensioni incastrate in profondità nei tasselli centrali: sul tassello di testa, così come verso i bordi inferiori interni del fondo e della tavola si legge “Rocca Enrico fu Giuseppe, fece in Genova 1915”, scritta autografa che era solito apporre su ogni suo strumento con la quale, con orgoglio, indicava la continuità dell’attività paterna. Lo strumento, ancora oggi apparecchiato con la propria montatura d’origine, si propone nella sua sobria eleganza: l’ispirazione stradivariana risulta ben calibrata e resa con naturalezza nelle linee del contorno, nei bordi che si caratterizzano per una sguscia delicata e scolpita con cura, nel filetto dal nero sottile in ebano che, contrastando un bianco in acero dalla luminosa specchiatura, crea una linea di contorno particolarmente elegante; come spesso si nota negli strumenti di Enrico Rocca, i filetti non presentano giunte nei corpi superiore ed inferiore e scorrono ininterrotti da punta a punta, rispettati anche dal capotasto inferiore della tavola armonica che, come di consueto, vi si appoggia senza troncarli. L’equilibrio disegnativo della tavola armonica è armonizzato dalle effe di risonanza le quali, montate con una leggera inclinazione, sono tagliate con sicurezza e delicatamente sgusciate nelle palette e ben raccordate ad una bombatura dalle linee classiche, scolpita e finita con tecnica impeccabile. Come sempre il ricciolo è il vero indicatore della personalità di un liutaio e mai come in questo caso, essa si rivela forte, sincera e diretta: la cassetta dei piroli è impostata con disegno aperto nella vista frontale, determinato da ganasce sottili e solo lievemente smussate all’interno, mentre nella vista laterale si evidenzia un sottogola affilato che si conclude bruscamente al sottogola; nella visione frontale e dorsale non si riscontrano segni di tracciatura a compasso, lo sviluppo del ricciolo veniva riportato sul blocco di legno per mezzo di semplici seste di cartone. La sguscia dei giri è condotta con buona profondità e risulta finita con rasiere e carta abrasiva; conclude la visione del ricciolo lo smusso nero ad inchiostro, steso a pennello con delicata cura, testimone di una tradizione famigliare che, fino all’ultimo, Enrico Rocca ha voluto portare con sé.

Misure: Lunghezza del fondo: 357mm Lunghezza superiore: 168mm Lunghezza centrale: 108mm (misurata col calibro) Lunghezza inferiore: 210mm Diapason: 195mm

Foto: Marco Ricci, Fotographia Genova

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